akrepi2008
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Angelina Jolie
Nei giorni successivi accompagnai Xian nei suoi incontri d'affari. In
realtÃ_ mi aveva scelto per fargli compagnia durante gli spostamenti e i
pranzi. Parlavo troppo o troppo poco. Le due attitudini gli piacevano
entrambe. Seguivo come si seminava e coltivava la semenza del danaro,
come veniva messo a maggese il terreno dell'economia. Arrivammo a Las
Vegas. A nord di Napoli. Qui chiamano Las Vegas questa zona per diverse
ragioni. Come Las Vegas del Nevada è edificata in mezzo al deserto, così
anche questi agglomerati sembrano spuntare dal nulla. Si arriva qui da un
deserto di strade. Chilometri di catrame, di strade enormi che in pochi
minuti ti portano fuori da questo territorio per spingerti sull'autostrada
verso Roma, dritto verso il nord. Strade fatte non per auto ma per camion,
non per spostare cittadini ma per trasportare vestiti, scarpe, borse.
Venendo da Napoli questi paesi spuntano d'improvviso, ficcati nella terra
uno accanto all'altro. Grumi di cemento. Le strade che si annodano ai lati
di una retta su cui si avvicendano senza soluzione di continuitÃ_ Casavatore,
Caivano, Sant'Antimo, Melito, Arzano, Piscinola, San Pietro a Patierno,
Frattamaggiore, Frattaminore, Grumo Nevano. Grovigli di strade. Paesi
senza differenze che sembrano un'unica grande cittÃ_. Strade che per metÃ_
sono un paese e per l'altra metÃ_ ne sono un altro.
Avrò sentito centinaia di volte chiamare la zona del foggiano la
Califoggia, oppure il sud della Calabria Calafrica o Calabria Saudita, o
magari Sahara Consilina per Sala Consilina, Terzo Mondo per indicare
una zona di Secondigliano. Ma qui Las Vegas è davvero Las Vegas.
Qualsiasi persona avesse voluto tentare una scalata imprenditoriale in
questo territorio, per anni avrebbe potuto farlo. Realizzare il sogno. Con un
prestito, una liquidazione, un forte risparmio, metteva su la sua fabbrica.
Puntava su un'azienda: se vinceva riceveva efficienza, produttivitÃ_,
velocitÃ_, silenzi, e lavoro a basso costo. Vinceva come si vince puntando
sul rosso o sul nero. Se perdeva chiudeva in pochi mesi. Las Vegas. Perché
nulla era dato da precise pianificazioni amministrati ed economiche.
Scarpe, vestiti, confezioni erano produzioni che si imponevano al buio sul
mercato internazionale. Le cittÃ_ non si facevano fregio di questa
produzione preziosa. I prodotti erano tanto più riusciti quanto assemblati in
silenzio e clandestinamente. Territori che da decenni producevano i
migliori capi della moda italiana. E quindi i migliori capi di moda del
mondo. Non avevano club di imprenditori, non avevano centri di
formazione, non avevano nulla che potesse essere altro dal lavoro, dalla
macchina per cucire, dalla piccola fabbrica, dal pacco imballato, dalla
merce spedita. Null'altro che un rimbalzare di queste fasi. Ogni altra cosa
era superflua. La formazione la facevi al tavolo da lavoro, la qualitÃ_
imprenditoriale la mostravi vincendo o perdendo. Niente finanziamenti,
niente progetti, niente stage. Tutto e subito nell'arena del mercato. O vendi
o perdi. Col crescere dei salari le case sono migliorate, le auto acquistate
tra le più care. Tutto senza una ricchezza definibile collettiva. Una
ricchezza saccheggiata, presa con fatica da qualcuno e portata nel proprio
buco. Arrivavano da ogni parte per investire, indotti che producevano
confezioni, camicie, gonne, giacche, giubbotti, guanti, cappelli, scarpe,
borse, portafogli per aziende italiane, tedesche, francesi. In queste zone
dagli anni '50 non v'era necessitÃ_ di avere permessi, contratti, spazi.
Garage, sottoscale, stanzini diventavano fabbriche. Negli ultimi anni la
concorrenza cinese ha distrutto quelle che fabbricavano prodotti di qualitÃ_
media. Non ha più dato spazio di crescita alla manualitÃ_ degli operai. O
lavori nel migliore dei modi subito o qualcuno saprÃ_ lavorare a un livello
medio in maniera più veloce. Un numero elevato di persone si sono trovate
senza lavoro. I proprietari delle fabbriche sono finiti stritolati dai debiti,
dall'usura. Molti si sono dati alla latitanza.
C'è un luogo che con la fine di questi indotti di bassa qualitÃ_ ha esaurito
il respiro, la crescita, la sopravvivenza. Della fine della periferia sembra
l'emblema. Con le case sempre illuminate e piene di gente, con i cortili
affollati. Le macchine sempre parcheggiate. Nessuno che esce mai di lÃ_.
Qualcuno che entra. Pochi che si fermano. In nessun momento della
giornata ci sono i vuoti condominiali, quelli che si sentono al mattino
quando tutti vanno al lavoro o a scuola. Qui invece c'è sempre folla, un
rumore continuo di abitato. Parco Verde a Caivano.
Parco Verde spunta appena si esce dall'asse mediano, una lama di
catrame che taglia di netto tutti i paesi del napoletano. Sembra, piuttosto
che un quartiere, una paccottiglia di cemento, verande di alluminio che si
gonfiano come bubboni su ogni balcone. Sembra uno di quei posti che
l'architetto ha progettato ispirandosi alle costruzioni sulla spiaggia, come
se avesse pensato quei palazzi come le torri di sabbia che vengono fuori
rovesciando il secchiello. Palazzi essenziali, bigi. Qui c'è in un angolo una
cappelletta minuscola. Quasi impercettibile. Non era però sempre stata
così. Prima c'era una cappella. Grande, bianca. Un vero e proprio
mausoleo dedicato a un ragazzo, Emanuele, morto sul lavoro. Un lavoro
che in certe zone è persino peggio del lavoro nero in fabbrica. Ma è un
mestiere. Emanuele faceva rapine. E le faceva sempre di sabato, tutti i
sabato, da un po' di tempo. E sempre sulla stessa strada. Stessa ora, stessa
strada, stesso giorno. Perché il sabato era il giorno delle sue vittime. Il
giorno delle coppiette. E la Statale 87 era il luogo dove tutte le coppie
della zona si appartano. Una strada di merda, tra catrame rattoppato e
microdiscariche. Ogni volta che ci passo e vedo le coppiette penso che sia
necessario dare fondo a tutta la propria passione per riuscire a star bene in
mezzo a tanto schifo. Proprio qui Emanuele e due suoi amici si
nascondevano, attendevano l'auto della coppia che parcheggiava, la luce
che si spegneva. Aspettavano qualche minuto dopo che la luce s'era spenta
per farli svestire, e nel momento di massima vulnerabilitÃ_ arrivavano. Con
il calcio della pistola rompevano il finestrino e poi la puntavano sotto il
naso del ragazzo. Ripulivano le coppiette e se ne andavano nei weekend
con decine di rapine fatte e cinquecento euro in tasca: un bottino
minuscolo che può avere il sapore del tesoro.
Capita però che una notte una pattuglia di carabinieri li intercetti. Sono
così imbecilli, Emanuele e i suoi compari, che non prevedono che fare
sempre le stesse mosse e rapinare sempre nelle stesse zone è il miglior
modo per essere arrestati. Le due auto si inseguono, si speronano, partono
gli spari. Poi tutto si ferma. In auto c'è Emanuele, colpito a morte. Aveva
in mano una pistola, e aveva fatto il gesto di puntarla contro i carabinieri.
Lo ammazzarono con undici colpi sparati in pochi secondi. Sparare undici
colpi a bruciapelo significa avere la pistola puntata ed esser pronti al
minimo segnale sparare. Sparare per uccidere e poi pensare di farlo per
non essere uccisi. Gli altri due avevano fermato la macchina. I proiettili
erano entrati passando nell'auto come un vento. Tutti calamitati dal corpo
di Emanuele. I suoi amici avevano tentato di aprire gli sportelli, ma appena
avevano capito che Emanuele era morto si erano fermati. Avevano aperto
le portiere senza fare resistenza ai pugni in faccia che precedono ogni
arresto. Emanuele era incartocciato su se stesso, aveva in mano una pistola
finta. Una di quelle riproduzioni che una volta chiamavano scacciacani,
usate in campagna per cacciare i branchi di randagi dai pollai. Un
giocattolo che veniva usato come fosse vero; del resto Emanuele era un
ragazzino che agiva come fosse un uomo maturo, sguardo spaventato che
fingeva d'essere spietato, la voglia di qualche spicciolo che fingeva essere
brama di ricchezza. Emanuele aveva quindici anni. Tutti lo chiamavano
semplicemente Manu. Aveva una faccia asciutta, scura e spigolosa, uno di
quelli che ti immagini come archetipo di ragazzino da non frequentare.
Emanuele era un ragazzo su questo angolo di territorio dove onore e
rispetto non ti sono dati da pochi spiccioli, ma da come li ottieni.
Emanuele era parte di Parco Verde. E non c'è errore o crimine che possa
cancellare la prioritÃ_ dell'appartenenza a certi luoghi che ti marchiano a
fuoco. Avevano fatto una colletta tutte le famiglie di Parco Verde. E
avevano tirato su un piccolo mausoleo. Dentro ci avevano messo una
fotografia della Madonna dell'Arco e una cornice con il volto sorridente di
Manu. Comparve anche la cappella di Emanuele, tra le oltre venti che i
fedeli avevano edificato a tutte le madonne possibili, una per ogni anno di
disoccupazione. Il sindaco però non poteva sopportare che si edificasse un
altare a un mariuolo, e mandò una ruspa ad abbatterlo. In un attimo il
cemento tirato su si sbriciolò come un lavoretto di Das. In pochi minuti si
sparse la voce nel Parco, i ragazzi arrivarono con motorini e moto vicino
alle ruspe. Nessuno pronunciava parola. Ma tutti fissavano l'operaio che
stava muovendo le leve. Con il carico di sguardi l'operaio si fermò, e fece
cenno di guardare il maresciallo. Era lui che gli aveva dato l'ordine. Come
un gesto per mostrare l'obiettivo della rabbia, per togliere il bersaglio dal
suo petto. Era impaurito. Si chiuse dentro. Assediato. In un attimo iniziò la
guerriglia. L'operaio riuscì a scappare nella macchina della polizia. Presero
a pugni e calci la ruspa, svuotarono le bottiglie di birra e le riempirono con
la benzina. Inclinarono i motorini facendo colare il carburante nelle
bottiglie direttamente dai serbatoi. E presero a sassate i vetri di una scuola,
vicino al Parco. Cade la cappella di Emanuele, deve cadere tutto il resto.
Dai palazzi lanciavano piatti, vasi, posate. Poi le bottiglie incendiarie
contro la polizia. Misero in fila i cassonetti come barricate. Diedero fuoco
a tutto quanto potesse prenderlo e diffonderlo. Si prepararono alla
guerriglia. Erano centinaia, potevano resistere a lungo. La rivolta si stava
diffondendo, stava arrivando nei quartieri napoletani.
Ma poi giunse qualcuno, da non troppo lontano. Tutto era circondato da
auto della polizia e dei carabinieri, ma un fuoristrada nero riuscì a superare
le barricate. L'autista fece un cenno, qualcuno aprì la portiera e un
gruppetto di rivoltosi entrò. In poco più di due ore tutto venne smantellato.
Si tolsero i fazzoletti dalla faccia, lasciarono spegnere le barricate di
spazzatura. I clan erano intervenuti, ma chissÃ_ quale. Parco Verde è una
miniera per la manovalanza camorristica. Qui tutti quelli che vogliono
raccolgono le leve più basse, la manovalanza da pagare persino meno dei
pusher nigeriani o albanesi. Tutti cercano i ragazzi di Parco Verde: i
Casalesi, i Maliardo di Giugliano, i "tigrotti" di Crispano. Divengono
spacciatori con stipendi senza percentuali sulle vendite. E poi autisti e pali,
a presidiare territori anche a chilometri di distanza da casa loro. E pur di
lavorare non chiedono il rimborso della benzina. Ragazzi fidati, scrupolosi
nel loro mestiere. A volte finiscono nell'eroina. La droga dei miserabili.
Qualcuno si salva, si arruola, entra nell'esercito e va lontano, qualche
ragazza riesce ad andare via per non mettere più piede in questi luoghi.
Quasi nessuno delle nuove generazioni viene affiliato. La parte maggiore
lavora per i clan, ma non saranno mai camorristi. I clan non li vogliono,
non li affiliano, li fanno lavorare sfruttando questa grande offerta. Non
hanno competenze, talento commerciale. Molti fanno i corrieri. Portano
zaini pieni di hashish a Roma. I muscoli dei motori tirati al massimo,
un'ora e mezza e giÃ_ sono alle porte della capitale. Non prendono nulla in
cambio di questi viaggi, ma dopo circa una ventina di spedizioni gli
regalano la moto. Lo sentono un guadagno prezioso, ineguagliabile quasi,
certamente irraggiungibile con qualsiasi altro mestiere rintracciabile in
questo luogo. Ma hanno trasportato merce capace di fatturare dieci volte il
costo della moto. Non lo sanno e non riescono a immaginarlo. Se un posto
di blocco li intercetta subiranno condanne sotto i dieci anni, e non essendo
affiliati non avranno le spese legali pagate né l'assistenza familiare
garantita dai clan. Ma in testa c'è il rombo dello scappamento e Roma da
raggiungere.
Qualche barricata continuò ancora a sfogarsi ma lentamente, a seconda
della quantitÃ_ di rabbia nella pancia. Poi tutto sfiatò. I clan non avevano
timore della rivolta, né del clamore. Potevano uccidersi e bruciare per
giorni, nulla sarebbe accaduto. Ma la rivolta non li avrebbe fatti lavorare.
Non avrebbe fatto di Parco Verde il serbatoio d'emergenza da cui attingere
sempre manovalanza a prezzo bassissimo. Tutto, e subito, doveva
rientrare. Tutti dovevano tornare al lavoro, o meglio, disponibili al lavoro
eventuale. Il gioco della rivolta doveva finire.
Al funerale di Emanuele c'ero stato. Quindici anni in certi meridiani di
mondo sono solo una somma. Crepare a quindici anni in questa periferia
sembra scontare una condanna a morte piuttosto che essere privati della
vita. In chiesa c'erano molti, moltissimi ragazzi tutti scuri in volto, ogni
tanto lanciavano qualche urlo e addirittura un coretto ritmato fuori dalla
chiesa: «Sem-pre con noi, rim-arrai sem-pre con noi... sempre con noi...».
Gli ultrÃ_ lo scandiscono solitamente quando qualche vecchia gloria
abbandona la maglia. Sembravano allo stadio, ma c'erano solo cori di
rabbia. C'erano poliziotti in borghese che cercavano di stare lontano dalle
navate. Tutti li avevano riconosciuti, ma non c'era spazio per scaramucce.
In chiesa riuscii subito a individuarli; o meglio loro individuarono me, non
trovando sul mio viso traccia del loro archivio mentale. Come per venire
incontro alla mia cupezza uno di questi mi si avvicinò dicendomi: «Questi
qua sono tutti pregiudicati. Spaccio, furto, ricettazione, rapina... qualcuno
fa pure le marchette. Non c'è nessuno pulito. Qua più ne muoiono, meglio
è per tutti...».
Parole a cui si risponde con un gancio, o una testata sul setto nasale. Ma
era in realtÃ_ il pensiero di tutti. E forse persino un pensiero saggio. Quei
ragazzi che si faranno l'ergastolo per una rapina da 200 euro – feccia,
surrogati d'uomini, spacciatori – li guardavo, uno per uno. Nessuno di loro
superava i vent'anni. Padre Mauro, il parroco che celebrava la funzione,
sapeva chi aveva di fronte. Sapeva anche che i ragazzini che gli stavano
intorno non avevano il timbro dell'innocenza.
«Oggi non è morto un eroe...»
Non aveva le mani aperte, come i preti quando leggono le parabole alla
domenica. Aveva i pugni chiusi. Assente qualsiasi tono d'omelia. Quando
iniziò a parlare la sua voce era rovinata da una raucedine strana, come
quella che viene quando ti parli dentro per troppo tempo. Parlava con un
tono rabbioso, nessuna pena molle per la creatura, non delegava niente.
Sembrava uno di quei preti sudamericani durante i moti di guerriglia in
Salvador, quando non ne potevano più di celebrare funerali di massacri e
smettevano di compatire, e iniziavano a urlare. Ma qui Romero nessuno lo
conosce. Padre Mauro ha un'energia rara. «Per quante responsabilitÃ_
possiamo attribuire a Emanuele, restano i suoi quindici anni. I figli delle
famiglie che nascono in altri luoghi d'Italia a quell'etÃ_ vanno in piscina, a
fare scuola di ballo. Qui non è così. Il Padreterno terrÃ_ conto del fatto che
l'errore è stato commesso da un ragazzo di quindici anni. Se quindici anni
nel sud Italia sono abbastanza per lavorare, decidere di rapinare, uccidere
ed essere uccisi, sono anche abbastanza per prendere responsabilitÃ_ di tali
cose».
Poi tirò forte col naso l'aria viziata della chiesa: «Ma quindici anni sono
così pochi che ci fanno vedere meglio cosa c'è dietro, e ci obbligano a
distribuire la responsabilitÃ_. Quindici anni è un'etÃ_ che bussa alla coscienza
di chi ciancia di legalitÃ_, lavoro, impegno. Non bussa con le nocche, ma
con le unghie».
Il parroco finì l'omelia. Nessuno capì fino in fondo cosa voleva dire, né
c'erano autoritÃ_ o istituzioni. Il trambusto dei ragazzi divenne enorme. La
bara uscì dalla chiesa, quattro uomini la sorreggevano ma d'improvviso
smise di poggiare sulle loro spalle e iniziò a galleggiare sulla folla. Tutti la
mantenevano con il palmo delle mani, come si fa con le rock-star quando
si catapultano dal palco sugli spettatori. Il feretro ondeggiava nel lago di
dita. Un corteo di ragazzi in moto si schierò vicino alla macchina, la
macchina lunga dei morti, pronta a trasportare Manu al cimitero.
Acceleravano. Col freno premuto. Il rombo dei motori fece da coro
all'ultimo percorso di Emanuele. Sgommando, lasciando ululare le
marmitte. Sembrava volessero scortarlo con quelle moto sino alle porte
dell'oltretomba. In poco tempo un fumo denso e un puzzo di benzina
riempì ogni cosa e impregnò i vestiti. Tentai di entrare in sacrestia. Volevo
parlare a quel prete che aveva avuto parole roventi. Mi anticipò una donna.
Voleva dirgli che in fondo il ragazzo se l'era cercata, che la famiglia non
gli aveva insegnato nulla. Poi, orgogliosa, confessò: «I miei nipoti anche
se disoccupati non avrebbero mai fatto rapine...».
E continuando nervosa:
«Ma cosa aveva imparato questo ragazzo? Niente?»
Il prete guardò per terra. Era in tuta. Non tentò di rispondere, non la
guardò neanche in viso e continuando a fissarsi le scarpe da ginnastica
bisbigliò: «Il fatto è che qui si impara solo a morire».
«Cosa padre?»
«Niente signora, niente.»
Ma non tutti qui sono sotto terra. Non tutti sono finiti nel pantano della
sconfitta. Per ora. Esistono ancora fabbriche vincenti. La forza di queste
imprese è tale che riescono a far fronte al mercato della manodopera cinese
perché lavorano sulle grandi griffe. VelocitÃ_ e qualitÃ_. Altissima qualitÃ_. Il
monopolio della bellezza dei capi d'eccellenza è ancora loro. Il made in
Italy si costruisce qui. Caivano, Sant'Antimo, Arzano, e via via tutta la Las
Vegas campana. "Il volto dell'Italia nel mondo" ha i lineamenti di stoffa
adagiati sul cranio nudo della provincia napoletana. Le griffe non si fidano
a mandare tutto a est, ad appaltare in Oriente. Le fabbriche si
ammonticchiano nei sottoscala, al piano terra delle villette a schiera. Nei
capannoni alla periferia di questi paesi di periferia. Si lavora cucendo,
tagliando pelle, assemblando scarpe. In fila. La schiena del collega davanti
agli occhi e la propria dinanzi agli occhi di chi ti è dietro. Un operaio del
settore tessile lavora circa dieci ore al giorno. Gli stipendi variano da
cinquecento a novecento euro. Gli straordinari sono spesso pagati bene.
Anche quindici euro in più rispetto al normale valore di un'ora di lavoro.
Raramente le aziende superano i dieci dipendenti. Nelle stanze dove si
lavora campeggia su una mensola una radio o una televisione. La radio si
ascolta per la musica e al massimo qualcuno canticchia. Ma nei momenti
di massima produzione tutto tace e battono soltanto gli aghi. Più della metÃ_
dei dipendenti di queste aziende sono donne. Abili, nate dinanzi alle
macchine per cucire. Qui le fabbriche formalmente non esistono e non
esistono nemmeno i lavoratori. Se lo stesso lavoro di alta qualitÃ_ fosse
inquadrato, i prezzi lieviterebbero e non ci sarebbe più mercato, e il lavoro
volerebbe via dall'Italia. Gli imprenditori di queste parti conoscono a
memoria questa logica. In queste fabbriche spesso non c'è astio tra operai e
proprietari. Qui il conflitto di classe è molle come un biscotto spugnato. Il
padrone spesso è un ex operaio, condivide le ore di lavoro dei suoi
dipendenti, nella stessa stanza, sullo stesso scranno. Quando sbaglia paga
direttamente con ipoteche e prestiti. La sua autoritÃ_ è paternalistica. Si
litiga per un giorno di ferie e per qualche centesimo di aumento. Non c'è
contratto, non c'è burocrazia. Volto contro volto. E si tracciano così gli
spazi delle concessioni e degli obblighi che hanno il sapore dei diritti e
delle competenze. La famiglia dell'imprenditore vive al piano di sopra
dove si lavora. In queste fabbriche spesso le operaie affidano i loro
bambini alle figlie del proprietario che diventano babysitter o alle madri
che si trasformano in nonne vicarie. I bambini delle operaie crescono con
le famiglie dei proprietari. Tutto questo crea una vita comune, realizza il
sogno orizzontale del postfordismo – far condividere il pranzo a operai e
dirigenti, farli frequentare nella vita privata, farli sentire parte di una stessa
comunitÃ_.
In queste fabbriche non ci sono sguardi che fissano il terreno. Sanno di
lavorare sull'eccellenza, e sanno di avere stipendi infimi. Ma senza l'uno
non c'è l'altro. Si lavora per prendere ciò di cui hai bisogno, nel miglior
modo possibile, così nessuno troverÃ_ motivo per cacciarti. Non c'è rete di
protezione. Diritti, giuste cause, permessi, ferie. Il diritto te lo costruisci.
Le ferie le implori. Non c'è da lagnarsi. Tutto accade come deve accadere.
Qui c'è solo un corpo, un'abilitÃ_, una macchina e uno stipendio. Non si
conoscono dati precisi su quanti siano i lavoratori in nero di queste zone.
Né quanti invece siano regolarizzati, ma costretti ogni mese a firmare
buste paga che indicano somme mai percepite.
Xian doveva partecipare a un'asta. Entrammo nell'aula di una scuola
elementare, nessun bambino, nessuna maestra. Solo i fogli bristol attaccati
alle pareti con enormi letterone disegnate. In aula aspettavano una ventina
di persone che rappresentavano le loro aziende, Xian era l'unico straniero.
Salutò soltanto due dei presenti e senza neanche troppa confidenza.
Un'auto si fermò nel cortile della scuola. Entrarono tre persone. Due
uomini e una donna. La donna aveva una gonna di pelle, tacchi alti, scarpe
di vernice. Si alzarono tutti a salutarla. I tre presero posto e iniziarono
l'asta. Uno degli uomini tirò tre linee verticali sulla lavagna. Iniziò a
scrivere sotto dettatura della donna. La prima colonna:
"800"
Era il numero di vestiti da produrre. La donna elencò tipi di stoffa e
qualitÃ_ dei capi. Un imprenditore di Sant'Antimo si avvicinò alla finestra e
dando le spalle a tutti propose il suo prezzo e i suoi tempi:
«Quaranta euro a capo in due mesi...»
Venne tracciata sulla lavagna la sua proposta.
"800 / 40 / 2"
I visi degli altri imprenditori non sembravano preoccupati. Non aveva
osato con la sua proposta entrare nelle dimensioni dell'impossibile. E
questa cosa evidentemente faceva piacere a tutti. Ma i committenti non
erano soddisfatti. L'asta continuò.
Le aste che le grandi griffe italiane fanno in questi luoghi sono strane.
Nessuno perde e nessuno vince l'appalto. Il gioco sta nel partecipare o
meno alla corsa. Qualcuno si lancia con una proposta, dettando il tempo e
il prezzo che può sostenere. Ma se le sue condizioni saranno accettate non
sarÃ_ l'unico vincitore. La sua proposta è come una rincorsa che gli altri
imprenditori possono tentare di seguire. Quando un prezzo viene accettato
dai mediatori gli imprenditori presenti possono decidere se partecipare o
meno; chi accetta riceve il materiale. Le stoffe. Le fanno inviare
direttamente al porto di Napoli e da lì ogni imprenditore le va a prendere.
Ma uno soltanto verrÃ_ pagato a lavoro ultimato. Quello che consegnerÃ_ per
primo i capi confezionati con elevatissima qualitÃ_ di fattura. Gli altri
imprenditori che hanno partecipato all'asta potranno tenersi i materiali, ma
non avranno un centesimo. Le aziende di moda ci guadagnano così tanto
che sacrificare stoffa non è una perdita rilevante. Se un imprenditore per
più volte non consegna, sfruttando l'asta per avere materiale gratuito, viene
escluso da quelle successive. Con quest'asta, i mediatori delle griffe si
assicurano la velocitÃ_ di produzione, perché se qualcuno tenta di rimandare
qualcun altro ne prenderÃ_ il posto. Nessuna proroga è possibile per i tempi
dell'alta moda.
Un altro braccio si alzò per la gioia della donna dietro la scrivania. Un
imprenditore ben vestito, elegantissimo.
«Venti euro in venticinque giorni.»
Alla fine accettarono quest'ultima proposta. Si accodarono a lui nove su
venti. Neanche Xian osò dirsi disponibile. Non poteva coordinare velocitÃ_
e qualitÃ_ in tempi così brevi e con prezzi così bassi. Finita l'asta la donna
scrisse in un file i nomi degli imprenditori, l'indirizzo delle fabbriche, i
numeri di telefono. Il vincitore offrì un pranzo a casa sua. Aveva la
fabbrica al piano terra; al primo piano viveva con la moglie, e al secondo
piano c'era suo figlio. Orgogliosamente raccontava:
«Ora sto chiedendo il permesso per tirare su un altro piano. Il mio
secondo figlio si sta per sposare.»
Salendo continuava a raccontarci della sua famiglia, in costruzione come
la sua villetta.
«Non mettete mai maschi a controllare le operaie, fanno solo guai. Due
figli maschi ho, e tutte e due si sono sposati con nostre dipendenti. Mettete
i ricchioni. Mettete i ricchioni a gestire turni e controllare il lavoro, come
si faceva una volta...»
Le operaie e gli operai salirono a brindare per l'appalto. Avrebbero
dovuto fare turnazioni molto rigide: dalle sei alle ventuno, con uno stacco
di un'ora a pranzo e un secondo turno dalle ventuno alle sei del mattino. Le
operaie erano tutte truccate, con gli orecchini e il grembiule per
proteggersi dalle colle, dalla polvere, dal grasso dei macchinari. Come
Superman che si toglie la camicia e sotto ha giÃ_ la sua tuta azzurra, queste
ragazze tolto il grembiule erano pronte per una cena fuori. Gli operai
invece erano abbastanza trasandati, con felpacce e pantaloni da lavoro.
Dopo il brindisi il padrone di casa si appartò con un invitato. Si defilò
insieme agli altri che avevano accettato il prezzo d'asta. Non stavano
nascondendosi, ma rispettavano l'antica usanza di non parlare di danaro a
tavola. Xian mi spiegò sin nel dettaglio chi fosse quella persona. Era
identico a come nell'immaginario appaiono i cassieri di banca. Doveva
anticipare liquiditÃ_ e stava discutendo i tassi d'interesse. Ma non
rappresentava una banca. Le griffe italiane pagano solo a lavoro ultimato.
Anzi, solo dopo aver approvato il lavoro. Stipendi, costi di produzione, e
persino di spedizione: tutto viene anticipato dai produttori. I clan, a
seconda della loro influenza territoriale, danno liquiditÃ_ in prestito alle
fabbriche. Ad Arzano i Di Lauro, a Sant'Antimo i Verde, i Cerniamo a
Crispano, e così in ogni territorio. Queste aziende ricevono liquiditÃ_ dalla
camorra con tassi bassi. Dal 2 al 4 per cento. Nessuna azienda più delle
loro potrebbe accedere ai crediti bancari: producono per l'eccellenza
italiana, per il mercato dei mercati. Ma sono fabbriche buie, e gli spettri
non vengono ricevuti dai direttori di banca. La liquiditÃ_ della camorra è
anche l'unica possibilitÃ_ per i dipendenti per accedere a un mutuo. Così, in
comuni dove oltre il 40 per cento dei residenti vive di lavoro nero, sei
famiglie su dieci riescono ugualmente a comprare una casa. Anche gli
imprenditori che non soddisfano le esigenze delle griffe troveranno un
acquirente. Venderanno tutto ai clan per farlo entrare nel mercato del falso.
Tutta la moda delle passerelle, tutta la luce delle prime più mondane
proviene da qui. Dal napoletano e dal Salente. I centri principali del tessile
in nero. I paesi di Las Vegas e quelli "dintra lu Capu". Casarano, Tricase,
Taviano, Melissano ossia Capo di Leuca, il basso Salente. Da qui partono.
Da questo buco. Tutte le merci hanno origine oscura. È la legge del
capitalismo. Ma osservare il buco, tenerlo davanti insomma, dÃ_ una
sensazione strana. Una pesantezza ansiosa. Come avere la veritÃ_ sullo
stomaco.
Tra gli operai dell'imprenditore vincente ne incontrai uno
particolarmente abile. Pasquale. Aveva una figura allampanata. Alto,
magrissimo e un po' "scuffato": la sua altezza si piegava sulle spalle, dietro
il collo. Un fisico a uncino. Lavorava su capi e disegni spediti direttamente
dagli stilisti. Modelli inviati solo per le sue mani. Il suo stipendio non
fluttuava ma variavano gli incarichi. In qualche modo aveva una certa aria
di soddisfazione. Pasquale mi divenne simpatico subito. Appena fissai il
suo nasone. Aveva una faccia anziana, anche se era un ragazzone. Una
faccia ficcata sempre tra forbici, tagli di stoffe, polpastrelli strusciati sulle
cuciture. Pasquale era uno dei pochi che poteva comprare direttamente la
stoffa. Alcune griffe – fidandosi della sua capacitÃ_ – gli facevano ordinare
direttamente i materiali dalla Cina, e lui stesso poi ne verificava la qualitÃ_.
Per questo motivo Xian e Pasquale si erano conosciuti. Al porto dove una
volta ci trovammo a mangiare insieme. Finito il pranzo Xian e Pasquale si
salutarono e noi subito salimmo in macchina. Stavamo andando verso il
Vesuvio. Di solito si rappresentano i vulcani con colori scuri. Il Vesuvio è
verde. Un manto infinito di muschio, sembra a vederlo da lontano. Prima
però di prendere la strada per i paesi vesuviani, l'auto entrò nell'androne di
una casa. Lì c'era Pasquale ad aspettarci. Non capivo cosa stesse
accadendo. Uscì dalla sua auto e direttamente si ficcò nel portabagagli
dell'auto di Xian. Tentai di chiedere spiegazioni:
«Cosa succede? Perché nel cofano?»
«Non preoccuparti. Adesso andiamo a Terzigno, alla fabbrica.»
Alla guida si mise una specie di Minotauro. Era uscito dall'auto di
Pasquale e sembrava sapesse a memoria cosa fare. Fece marcia indietro,
uscì dal cancello, e prima di immettersi sulla strada cacciò una pistola. Una
semiautomatica. Scarrellò e se la mise tra le gambe. Io non fiatai, ma il
Minotauro, guardando nello specchietto retrovisore, vedeva che lo fissavo
preoccupato:
«Una volta ci stavano facendo la pelle.»
«Ma chi?»
Cercavo di farmi spiegare tutto dall'inizio.
«Sono quelli che non vogliono che i cinesi imparino a lavorare sull'alta
moda. Quelli che dalla Cina vogliono le stoffe, punto e basta.»
Non capivo. Continuavo a non capire. Intervenne Xian col suo solito
tono tranquillizzante.
«Pasquale ci aiuta a imparare. A imparare a lavorare sui capi di qualitÃ_
che ancora non ci affidano. Impariamo da lui come fare i vestiti...»
Il Minotauro, dopo la sintesi di Xian, cercò di motivare la pistola:
«Allora... una volta uno è sbucato lì, proprio lì vedi, in mezzo alla
piazza, e ha sparato contro la macchina. Hanno colpito il motore e il
tergicristalli. Se volevano farci fuori ci facevano fuori. Ma era un
avvertimento. Se lo rifanno questa volta però sono pronto.»
Il Minotauro poi mi spiegò che quando si guida tenere la pistola tra le
cosce è la tecnica migliore, poggiarla sul cruscotto rallenterebbe i gesti, i
movimenti per prenderla. Per arrivare a Terzigno la strada era in salita, la
frizione gettava un odore puzzolentissimo. Piuttosto che temere per
qualche sventagliata di mitra temevo che il rinculo dell'auto potesse far
sparare la pistola nello scroto dell'autista. Arrivammo tranquillamente.
Appena ferma la macchina Xian andò ad aprire il cofano. Pasquale uscì.
Sembrava un kleenex appallottolato che tentava di stiracchiarsi. Mi si
avvicinò e disse:
«Ogni volta questa storia, manco fossi un latitante. Però meglio che non
mi vedono in macchina. Altrimenti...»
E fece il gesto della lama sulla gola. Il capannone era grande. Non
enorme. Xian me lo descriveva orgoglioso. Era di sua proprietÃ_, ma
all'interno c'erano nove microfabbriche affidate a nove imprenditori cinesi.
Entrando infatti sembrava di vedere una scacchiera. Ogni singola fabbrica
aveva i propri operai e i propri banchi da lavoro ben circoscritti nei
quadrati. A ogni fabbrica Xian aveva concesso lo stesso spazio delle
fabbriche di Las Vegas. Ogni appalto lo concedeva per asta. Il metodo era
lo stesso. Aveva deciso di non far stare i bambini nella zona di
lavorazione, e i turni li aveva organizzati come facevano le fabbriche
italiane. In più, quando lavoravano per altre aziende, non chiedevano
liquiditÃ_ anticipata. Xian insomma stava diventando un vero e proprio
imprenditore della moda italiana.
Le fabbriche cinesi in Cina stavano facendo concorrenza alle fabbriche
cinesi in Italia. E così Prato, Roma, e le Chinatown di mezza Italia stavano
crollando miseramente: avevano avuto un boom di crescita così veloce da
rendere la caduta ancora più repentina. In un unico modo si sarebbero
potute salvare le fabbriche cinesi: fare diventare gli operai esperti dell'alta
moda, capaci di lavorare in Italia sull'eccellenza. Imparare dagli italiani,
dai padroncini sparsi per Las Vegas, divenire non più produttori di
paccottiglia ma referenti nel sud Italia delle griffe. Prendere il posto, le
logiche, gli spazi, i linguaggi delle fabbriche in nero italiane e cercare di
fare lo stesso lavoro. Solo a un po' di meno e a qualche ora in più.
Pasquale cacciò della stoffa da una valigetta. Era un vestito che avrebbe
dovuto tagliare e lavorare nella sua fabbrica. Invece fece l'operazione su
una scrivania davanti a una telecamera, che lo riprendeva rimandando
l'immagine su un enorme telone appeso alle sue spalle. Una ragazza con un
microfono traduceva in cinese ciò che diceva. Era la sua quinta lezione.
«Dovete avere massima cura delle cuciture. La cucitura dev'essere
leggera, ma non inesistente.»
Il triangolo cinese. San Giuseppe Vesuviano, Terzigno, Ottaviano. E il
fulcro dell'imprenditoria tessile cinese. Tutto quello che accade nelle
comunitÃ_ cinesi d'Italia è accaduto prima a Terzigno. Le prime lavorazioni,
le qualitÃ_ di produzione, e anche i primi assassinii. Qui è stato ammazzato
Wang Dingjm, un immigrato quarantenne arrivato in auto da Roma per
partecipare a una festa tra connazionali. Lo invitarono e poi gli spararono
in testa. Wang era una testa di serpente, ovvero una guida. Legato ai
cartelli criminali pechinesi che organizzano l'entrata clandestina di
cittadini cinesi. Spesso le diverse teste di serpente si scontrano con i
committenti di merce-uomo. Promettono agli imprenditori un quantitativo
di persone che poi in realtÃ_ non portano. Come si uccide uno spacciatore
quando ha tenuto per sé una parte del guadagno, così si uccide una testa di
serpente perché ha barato sulla sua merce, sugli esseri umani. Ma a crepare
non sono solo mafiosi. Fuori della fabbrica c'era una foto appesa su una
porta. La foto di una ragazza piccola. Un bel viso, zigomi rosa, occhi neri
che sembravano truccati. Era proprio posta nel punto in cui,
nell'iconografia tradizionale, ci si aspetta il volto giallo di Mao. Era Zhang
Xiangbi, una ragazza incinta uccisa e gettata in un pozzo qualche anno fa.
Lei lavorava qui. Un meccanico di queste zone l'aveva adocchiata; lei
passava davanti alla sua officina, a lui era piaciuta e questo credeva fosse
condizione sufficiente per averla. I cinesi lavorano come bestie, strisciano
come bisce, sono più silenziosi dei sordomuti, non possono avere forme di
resistenza e di volontÃ_. L'assioma nella mente di tutti, o quasi tutti, è
questo. Zhang invece aveva resistito, aveva tentato di scappare quando il
meccanico l'aveva avvicinata, ma non poteva denunciarlo. Era cinese, ogni
gesto di visibilitÃ_ è negato. Quando c'ha riprovato, questa volta l'uomo non
ha sopportato il rifiuto. L'ha massacrata di calci sino a farla svenire e poi le
ha squarciato la gola gettando il suo cadavere in fondo a un pozzo
artesiano, lasciandolo gonfiare di umido e acqua per giorni. Pasquale
conosceva questa storia, ne era rimasto sconvolto; ogni volta che teneva la
sua lezione aveva infatti l'accortezza di andare dal fratello di Zhang e
chiedere come stava, se aveva bisogno di qualcosa e si sentiva
perennemente rispondere: «Niente, grazie».
Io e Pasquale legammo molto. Quando parlava dei tessuti sembrava un
profeta. Nei negozi era pignolissimo, non era possibile neanche
passeggiare, si piantava davanti a ogni vetrina insultando il taglio di una
giacca, vergognandosi al posto del sarto per il disegno di una gonna. Era
capace di prevedere la durata della vita di un pantalone, di una giacca, di
un vestito. Il numero esatto di lavaggi che avrebbero sopportato quei
tessuti prima di ammosciarsi addosso. Pasquale mi iniziò al complicato
mondo dei tessuti. Avevo cominciato anche a frequentare casa sua. La sua
famiglia, i suoi tre bambini, sua moglie, mi davano allegria. Erano sempre
attivi ma mai frenetici. Anche quella sera i bambini più piccoli correvano
per la casa scalzi. Ma senza fare chiasso. Pasquale aveva acceso la
televisione, cambiando i vari canali era rimasto immobile davanti allo
schermo, aveva strizzato gli occhi sull'immagine come un miope, anche se
ci vedeva benissimo. Nessuno stava parlando ma il silenzio sembrò farsi
più denso. Luisa, la moglie, intuì qualcosa, perché si avvicinò alla
televisione e si mise le mani sulla bocca, come quando si assiste a una cosa
grave e si tappa un urlo. In tv Angelina Jolie calpestava la passerella della
notte degli Oscar indossando un completo di raso bianco, bellissimo. Uno
di quelli su misura, di quelli che gli stilisti italiani, contendendosele,
offrono alle star. Quel vestito l'aveva cucito Pasquale in una fabbrica in
nero ad Arzano. Gli avevano detto solo: «Questo va in America». Pasquale
aveva lavorato su centinaia di vestiti andati negli USA. Si ricordava bene
quel tailleur bianco. Si ricordava ancora le misure, tutte le misure. Il taglio
del collo, i millimetri dei polsi. E il pantalone. Aveva passato le mani nei
tubi delle gambe e ricordava ancora il corpo nudo che ogni sarto
immagina. Un nudo senza erotismo, disegnato nelle sue fasce muscolari,
nelle sue ceramiche d'ossa. Un nudo da vestire, una mediazione tra
muscolo, ossa e portamento. Era andato a prendersi la stoffa al porto, lo
ricordava ancora bene quel giorno. Gliene avevano commissionati tre, di
vestiti, senza dirgli altro. Sapevano a chi erano destinati, ma nessuno
l'aveva avvertito.
In Giappone il sarto della sposa dell'erede al trono aveva ricevuto un
rinfresco di Stato; un giornale berlinese aveva dedicato sei pagine al sarto
del primo cancelliere donna tedesco. Pagine in cui si parlava di qualitÃ_
artigianale, di fantasia, di eleganza. Pasquale aveva una rabbia, ma una
rabbia impossibile da cacciare fuori. Eppure la soddisfazione è un diritto,
se esiste un merito questo dev'essere riconosciuto. Sentiva in fondo, in
qualche parte del fegato o dello stomaco, di aver fatto un ottimo lavoro e
voleva poterlo dire. Sapeva di meritarsi qualcos'altro. Ma non gli era stato
detto niente. Se n'era accorto per caso, per errore. Una rabbia fine a se
stessa, che spunta carica di ragioni ma di queste non può far nulla. Non
avrebbe potuto dirlo a nessuno. Neanche bisbigliarlo davanti al giornale
del giorno dopo. Non poteva dire "Questo vestito l'ho fatto io". Nessuno
avrebbe creduto a una cosa del genere. La notte degli Oscar, Angelina
Jolie indossa un vestito fatto ad Arzano, da Pasquale. Il massimo e il
minimo. Milioni di dollari e seicento euro al mese. Quando tutto ciò che è
possibile è stato fatto, quando talento, bravura, maestria, impegno,
vengono fusi in un'azione, in una prassi, quando tutto questo non serve a
mutare nulla, allora viene voglia di stendersi a pancia sotto sul nulla, nel
nulla. Sparire lentamente, farsi passare i minuti sopra, affondarci dentro
come fossero sabbie mobili. Smettere di fare qualsiasi cosa. E tirare, tirare
a respirare. Nient'altro. Tanto nulla può mutare condizione: nemmeno un
vestito fatto ad Angelina Jolie e indossato la notte degli Oscar.
Pasquale uscì di casa, non si curò neanche di chiudere la porta. Luisa
sapeva dove andava, sapeva che sarebbe andato a Secondigliano e sapeva
chi andava a incontrare. Poi si buttò sul divano e immerse la faccia nel
cuscino come una bambina. Non so perché, ma quando Luisa si mise a
piangere mi vennero in mente i versi di Vittorio Bodini. Una poesia che
raccontava delle strategie che usavano i contadini del sud per non partire
soldati, per non riempire le trincee della Prima guerra, alla difesa di confini
di cui ignoravano l'esistenza. Faceva così:
Al tempo dell'altra guerra contadini e contrabbandieri / si mettevano foglie
di Xanti-Yaca sotto le ascelle / per cadere ammalati. / Le febbri artificiali,
la malaria presunta / di cui tremavano e battevano i denti, / erano il loro
giudizio / sui governi e la storia.
Il pianto di Luisa mi sembrò anch'esso un giudizio sul governo e sulla
storia. Non uno sfogo. Non un dispiacere per una soddisfazione non
celebrata. Mi è sembrato un capitolo emendato del Capitale di Marx, un
paragrafo della Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith, un capoverso
della Teoria generale dell'occupazione di John Maynard Keynes, una nota
dell'Etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber. Una
pagina aggiunta o sottratta. Dimenticata di scrivere o forse scritta
continuamente ma non nello spazio della pagina. Non era un atto disperato
ma un'analisi. Severa, dettagliata, precisa, argomentata. Mi immaginavo
Pasquale per strada, a battere i piedi per terra come quando ci si toglie la
neve dagli scarponi. Come un bambino che si stupisce del perché la vita
dev'essere tanto dolorosa. Sino ad allora ci era riuscito. Era riuscito a
trattenersi, a fare il suo mestiere, a volerlo fare. E a farlo come nessun
altro. Ma in quel momento, quando ha visto quel vestito, quel corpo
muoversi dentro alle stoffe da lui carezzate si è sentito solo. Solissimo.
Perché quando qualcuno conosce una cosa solo nel perimetro della propria
carne e del proprio cranio è come se non la sapesse. E così il lavoro
quando serve solo a galleggiare, a sopravvivere, solo a se stessi, allora è la
peggiore delle solitudini.
Rividi Pasquale due mesi dopo. L'avevano messo sui camion.
Trasportava ogni tipo di merce – legale e illegale – per conto delle imprese
legate alla famiglia Licciardi di Secondigliano. O almeno così dicevano. Il
miglior sarto sulla terra guidava i camion della camorra tra Secondigliano
e il Lago di Garda. Mi offrì un pranzo, mi fece fare un giro nel suo enorme
camion. Aveva le mani rosse e le nocche spaccate. Come a tutti i
camionisti che per ore reggono i volanti, le mani gelano e la circolazione si
ingolfa. Non aveva un viso sereno, aveva scelto quel lavoro per dispetto,
per dispetto al suo destino, un calcio in culo alla sua vita. Ma non si poteva
sempre sopportare, anche se mandare tutto al diavolo significava vivere
peggio. Mentre mangiavamo si alzò per andare a salutare qualche suo
compare. Lasciò il portafogli sul tavolo. Vidi uscire dal fagotto di cuoio
una pagina di giornale piegata in quattro parti. Aprii. Era una foto, una
copertina di Angelina Jolie vestita di bianco. Il completo cucito da
Pasquale. La giacca portata direttamente sulla pelle. Bisognava avere il
talento di vestirla senza nasconderla. Il tessuto doveva accompagnare il
corpo, disegnarlo facendosi tracciare dai movimenti.
Sono sicuro che Pasquale, da solo, qualche volta, magari quando ha
finito di mangiare, quando a casa i bambini si addormentano sfiancati dal
gioco a pancia sotto sul divano, quando la moglie prima di lavare i piatti si
mette al telefono con la madre, proprio in quel momento gli viene in mente
di aprire il portafogli e fissare quella pagina di giornale. E sono sicuro che,
guardando quel capolavoro che ha creato con le sue mani, Pasquale è
felice. Una felicitÃ_ rabbiosa. Ma questo non lo saprÃ_ mai nessuno.
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