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LA RIMOZIONE DI UNA STORIA DI LUCI, OMBRE, VERGOGNE
di Gian Antonio Stella
La feccia del pianeta, questo eravamo. Meglio: cosģ eravamo visti. Non potevamo mandare i figli alle scuole dei bianchi in Louisiana. Ci era vietato laccesso alle sale daspetto di terza classe alla stazione di Basilea. Venivamo martellati da campagne di stampa indecenti contro «questa maledetta razza di assassini». Cercavamo casa schiacciati dalla fama dessere «sporchi come maiali». Dovevamo tenere nascosti i bambini come Anna Frank perché non ci era permesso portarceli dietro. Eravamo emarginati dai preti dei paesi dadozione come cattolici primitivi e un po pagani. Ci appendevano alle forche nei pubblici linciaggi perché facevamo i crumiri o semplicemente perché eravamo «tutti siciliani». «Bel paese, brutta gente.» Ce lo siamo tirati dietro per un pezzo, questo modo di dire diffuso in tutta lEuropa e scelto dallo scrittore Claus Gatterer come titolo di un romanzo in cui racconta la diffidenza e lostilitą dei sud-tirolesi verso gli italiani. Oggi raccontiamo a noi stessi, con patriottica ipocrisia, che eravamo «poveri ma belli», che i nostri nonni erano molto diversi dai curdi o dai cingalesi che sbarcano sulle nostre coste, che ci insediavamo senza creare problemi, che nei paesi di immigrazione eravamo ben accolti o ci guadagnavamo comunque subito la stima, il rispetto, laffetto delle popolazioni locali. Ma non č cosģ. Certo, la nostra storia collettiva di emigranti... č nel complesso positiva. Molto positiva. Basti pensare, per parlare dei soli Stati Uniti, a Filippo Mazzei, che arrivņ lģ nella seconda metą del Settecento e fu tra gli ispiratori, con la frase «tutti gli uomini sono per natura liberi e indipendenti», della Dichiarazione dIndipendenza stesa dal suo amico Thomas Jefferson. A Edoardo Ferraro, che durante la guerra civile fu lunico generale a comandare una divisione composta totalmente da neri liberati. A padre Carlo Mazzucchelli, che nel 1833 predicava tra i pellerossa e per primo mise per iscritto, con un libro di preghiere, la lingua sioux. A Lorenzo Da Ponte, che dopo aver scritto per Mozart i libretti delle Nozze di Figaro, del Don Giovanni e di Cosģ fan tutte e aver fatto mille altri mestieri, finģ a New York dove nel 1819, gią vecchio, fondņ la cattedra di letteratura italiana al Columbia College, destinato a diventare la Columbia University. In 27 milioni se ne andarono, nel secolo del grande esodo dal 1876 al 1976. E tantissimi fecero davvero fortuna. Come Amedeo Obici, che partģ da Le Havre a undici anni e sgobbando come un matto diventņ il re delle noccioline americane: «Mister Peanuts». O Giovanni Giol, che dopo aver fatto un sacco di soldi col vino in Argentina rientrņ e comprņ chilometri di buona terra nel Veneto dando allimmensa azienda agricola il nome di «Mendoza». O Geremia Lunardelli che, come racconta Ulderico Bernardi in Addio Patria, arrivņ in Brasile senza una lira e finģ per affermarsi in pochi anni come il re del caffč carioca, quindi mondiale. O ancora Fiorello La Guardia, che dopo essersi fatto la scorza dura in Arizona (ricordņ per tutta la vita linsulto di un razzista che deridendo gli ambulanti italiani che giravano con lorganetto gli aveva gridato: «Ehi, Fiorello, dovč la scimmia?») diventņ il pił popolare dei sindaci di New York. Quelli sģ, li ricordiamo. Quelli che ci hanno dato lustro, che ci hanno inorgoglito, che grazie alla serenitą guadagnata col raggiungimento del benessere non ci hanno fatto pesare lottuso e indecente silenzio dal quale sono sempre stati accompagnati. Gli altri no. Quelli che non ce lhanno fatta e sopravvivono oggi tra mille difficoltą nelle periferie di San Paolo, Buenos Aires, New York o Melbourne fatichiamo a ricordarli. Abbiamo perduto 27 milioni di padri e di fratelli eppure quasi non ne trovi traccia nei libri di scuola. Erano partiti, fine. Erano la testimonianza di una storica sconfitta, fine. Erano una piaga da nascondere, fine. Soprattutto nellItalia della retorica risorgimentale, savoiarda e fascista. Un esempio per tutti, il titolo del 27 ottobre 1927 del Corriere della Sera sullaffondamento a 90 miglia da Rio de Janeiro di quella che era stata la nave ammiraglia della nostra flotta mercantile, colata a picco col suo carico di poveretti diretti in Sud America. Tre colonne (su nove!) di spalla: «Il Principessa Mafalda naufragato al largo del Brasile. Sette navi accorse allappello - 1.200 salvati - Poche decine le vittime». Erano 314, i morti. Ma il numero finģ tre giorni dopo in un titolino in neretto corpo 7... Se ne fotteva, lItalia, di quei suoi figli di terza classe. Basta estrarre dai cassetti i rapporti consolari, che avevano come unica preoccupazione la brutta figura che ci facevano fare i nostri nonni, i nostri padri, le nostre sorelle perché mendicavano o erano sporchi o facevano chiasso o andavano alla deriva verso i lupanari e la delinquenza. Ricordare il tira e molla interminabile, e concluso solo pochi anni fa, della legge per il voto agli emigrati. Sfogliare le lettere amarissime raccolte in Merica! Merica! da Emilio Franzina, come quella di Francesco Sartori: «Non posso mangiare il pane che č duro come un pezzo di ferro e non si bagna. Sono 14 giorni che siamo in Marsiglia: 4 giorni siamo vissuti a nostre spese, 4 giorni ci han passato un franco al giorno. Sono 6 giorni che ci fanno le spese a bordo che vuol dire sul bastimento. Io di questi ho mangiato tre giorni perché non ho denari da mangiare fuori. Si mangia da bestie»... Di tutta la storia della nostra emigrazione abbiamo tenuto solo qualche pezzo. La straordinaria dimostrazione di forza, di bravura e di resistenza dei nostri contadini in Brasile o in Argentina. Le curiositą di cittą come Nova Milano o Nova Trento, sparse qua e lą ma soprattutto negli Usa dove si contano due Napoli, quattro Venezia e Palermo, cinque Roma. Le lacrime per i minatori mandati in Belgio in cambio di 200 chili luno di carbone al giorno e morti in tragedie come quella di Marcinelle. I successi di manager alla Lee Jacocca, di politici alla Mario Cuomo, di uno stuolo di attori da Rodolfo Valentino a Robert de Niro, da Ann Bancroft (allanagrafe Anna Maria Italiano) a Leonardo Di Caprio. La generositą delle rimesse dei veneti e dei friulani che hanno dato il via al miracolo del Nordest. La stima conquistata alla Volkswagen dai capireparto siciliani o calabresi. E su questi pezzi di storia abbiamo costruito lidea che noi eravamo diversi. Di pił: eravamo migliori. Non č cosģ. Non cč stereotipo rinfacciato agli immigrati di oggi che non sia gią stato rinfacciato, un secolo o solo pochi anni fa, a noi. «Loro» sono clandestini? Lo siamo stati anche noi: a milioni, tanto che i consolati ci raccomandavano di pattugliare meglio i valichi alpini e le coste non per gli arrivi ma per le partenze. «Loro» si accalcano in osceni tuguri in condizioni igieniche rivoltanti? Labbiamo fatto anche noi, al punto che a New York il prete irlandese Bernard Lynch teorizzava che «gli italiani riescono a stare in uno spazio minore di qualsiasi altro popolo, se si eccettuano, forse, i cinesi». «Loro» vendono le donne? Ce le siamo vendute anche noi, perfino ai bordelli di Porto Said o del Maghreb. Sfruttano i bambini? Noi abbiamo trafficato per decenni coi nostri, cedendoli agli sfruttatori pił infami o mettendoli allasta nei mercati doltralpe. Rubano il lavoro ai nostri disoccupati? Noi siamo stati massacrati, con laccusa di rubare il lavoro agli altri. Importano criminalitą? Noi ne abbiamo esportata dappertutto. Fanno troppi figli rispetto alla media italiana mettendo a rischio i nostri equilibri demografici? Noi spaventavamo allo stesso modo gli altri. Basti leggere i reportage sugli Usa della giornalista Amy Bernardy, i libri sullAustralia di Tito Cecilia o Brasile per sempre di Francesca Massarotto. La quale racconta che i nostri emigrati facevano in media 8,25 figli a coppia ma che nel Rio Grande do Sul «ne mettevano al mondo fino a 10, 12 e anche 15 cosģ comera nelle campagne del Veneto, del Friuli e del Trentino». Perfino laccusa pił nuova dopo l11 settembre, cioč che tra gli immigrati ci sono «un sacco di terroristi», č per noi vecchissima: a seminare il terrore nel mondo, per un paio di decenni, furono i nostri anarchici. Come Mario Buda, un fanatico romagnolo che si faceva chiamare Mike Boda e che il 16 settembre 1920 fece saltare per aria Wall Street fermando il respiro di New York ottantanni prima di Osama Bin Laden. Mancava poco a mezzogiorno, la strada davanti allo Stock Exchange, la borsa newyorkese, era piena di gente. Si arrestņ un carretto tirato da un cavallo. Luomo legņ le redini a un palo davanti alla banca Morgan & Stanley che nel 2001 sarebbe stata nuovamente colpita dallattacco alle Torri Gemelle, si sistemņ il cappello e sallontanņ senza mostrare fretta. Pochi minuti e Wall Street fu squassata da unesplosione spaventosa. Quando la polvere si posņ e vennero finalmente spenti gli incendi che avevano aggredito tutti gli edifici intorno, furono contati 33 morti, oltre 200 feriti e danni per due milioni di dollari dellepoca. Il pił sanguinoso attentato di tutti i tempi, e lo sarebbe rimasto fino alla strage di Oklahoma City, nella storia degli Stati Uniti. Rientrato in Italia subito dopo la strage, arrestato e mandato al confino a Lipari, ha raccontato Chiara Milanesi su Diario, Mario Buda negņ fino alla morte di essere stato lui luomo «dal forte accento italiano» che aveva lasciato lģ quel carretto carico di dinamite... E in questa doppia versione dei fatti puņ essere riassunta tutta la storia dellemigrazione italiana. Una storia carica di veritą e di bugie. In cui non sempre puoi dire chi avesse ragione e chi torto. Eravamo sporchi? Certo, ma furono infami molti ritratti dipinti su di noi. Era vergognoso accusarci di essere tutti mafiosi? Certo, ma non possiamo negare davere importato noi negli States la mafia e la camorra. La veritą č fatta di pił facce. Sfumature. Ambiguitą. E se andiamo a ricostruire laltra metą della nostra storia, si vedrą che lunica vera e sostanziale differenza tra «noi» allora e gli immigrati in Italia oggi č quasi sempre lo stacco temporale. Noi abbiamo vissuto lesperienza prima, loro dopo. Punto. Detto questo, per caritą: alla larga dal buonismo, dallapertura totale delle frontiere, dallesaltazione scriteriata del melting pot, dal rispetto politicamente corretto ma a volte suicida di tutte le culture. Ma alla larga pił ancora dal razzismo. Dal fetore insopportabile di xenofobia che monta, monta, monta in una societą che ha rimosso una parte del suo passato. Certo, un paese č di chi lo abita, lo ha costruito, lo ha modellato su misura della sua storia, dei suoi costumi, delle sue convinzioni politiche e religiose. Di pił: ogni popolo ha il diritto, in linea di principio ed entro certi limiti, di essere padrone in casa propria. E dunque di decidere, per mantenere lequilibrio a suo parere corretto, se far entrare nuovi ospiti e quanti. Di pił ancora: in nome di questo equilibrio e di valori condivisi (la democrazia, il rispetto della donna, la laicitą dello stato, luguaglianza di tutti gli uomini...) puņ arrivare perfino a decidere una politica delle quote che privilegi (laicamente) questa o quella componente. In un mondo di diffusa illegalitą come il nostro, possono essere invocate anche le impronte digitali, i registri degli arrivi, la sorveglianza assidua delle minoranze a rischio, lespulsione dei delinquenti, la mano pesante con chi sbaglia. La xenofobia, perņ, č unaltra cosa. «Ma perché questa parola deve avere un significato negativo?», ha sbuffato testualmente Silvio Berlusconi a Porta a Porta nel maggio 2002. Gli risponde il vocabolario Treccani: «Xenofobia: sentimento di avversione per gli stranieri e per ciņ che č straniero, che si manifesta in atteggiamenti razzistici e azioni di insofferenza e ostilitą verso le usanze, la cultura e gli abitanti stessi di altri paesi». Pił sbrigativo ancora il significato di xenofobo: «Chi nutre odio o avversione indiscriminata verso tutti gli stranieri». Nessuna confusione. Una cosa č la legittima scelta di un paese di mantenere la propria dimensione, le proprie regole, i propri equilibri, unaltra giocare sporco sui sentimenti sporchi dicendo come Umberto Bossi che «nei prossimi dieci anni porteranno in Padania 13 o 15 milioni di immigrati, per tenere nella colonia romano-congolese questa maledetta razza padana, razza pura, razza eletta». Una cosa č sbattere fuori quei musulmani che puntano al rovesciamento violento della nostra societą, unaltra spargere piscio di maiale sui terreni dove dovrebbe sorgere una moschea. Una cosa irrigidire i controlli sugli albanesi che ormai rappresentano un detenuto su tre fra gli stranieri rinchiusi nelle carceri italiane, un altro dire che tutti gli albanesi sono ladri o papponi. Vale per tutti, dallAustralia alla Patagonia. Ma pił ancora, dopo decenni di violenze e stereotipi visti dallaltra parte, dovrebbe valere per noi. Che dovremmo ricordare sempre come larrivo dei nostri emigrati coi loro fagotti e le donne e i bambini venisse accolto dai razzisti locali: con lo stesso urlo che oggi campeggia sui nostri muri. Lo stesso urlo, la stessa parola. Quella che prende alla pancia rievocando i secoli bui, la grande paura, i barbari, Attila, gli Unni con la carne macerata sotto la sella: lorda.
LORDA - Quando gli albanesi eravamo noi č il titolo del libro di Gian Antonio Stella, edito da Rizzoli nel 2001. Per gentile concessione dellautore ne abbiamo qui riportato quasi per intero lintroduzione.
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